Pubblichiamo l’intervento che il professor Maciocco, tra i massimi esperti in politiche sanitarie e salute globale, ha tenuto lo scorso 12 marzo a Volterra in occasione della giornata Orgoglio Comune, convocata dai sindaci per dire no alle fusioni obbligatorie e chiedere una sanità pubblica di prossimità, che tenga conto dei territori e dei piccoli centri (leggi). L’intervento mirava a spiegare quali strategie stanno alla base del fenomeno che stiamo vivendo intorno ad uno dei servizi fondamentali per una comunità, la sanità.
di Gavino Maciocco
In Italia è in atto un vero assalto al servizio sanitario nazionale. Questo assalto prevede l’attuazione di una strategia ben nota e descritta precisamente da Noam Chomsky: «That’s the standard technique of privatization: defund, make sure things don’t work, people get angry, you hand it over to private capital» (Questa è la tecnica standard per la privatizzazione: togli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare la gente, e lo consegnerai al capitale privato).
Togliere i fondi L’Italia è tra i pochi paesi dell’OCSE, insieme a Grecia, Spagna e Portogallo, a registrare, dal 2010 in poi, una costante riduzione della spesa sanitaria pubblica. Anche per questo si trova nelle posizioni di coda delle classifiche internazionali. Secondo i calcoli della Conferenza delle Regioni il settore sanitario pubblico ha subito negli ultimi anni tagli cumulati per 31,7 miliardi di euro, a cui va aggiunto il taglio di 2,3 miliardi di euro previsto dalla legge di stabilità 2015. Il salasso è destinato a proseguire dato che il DEF 2015 prevede una progressiva contrazione dell’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Pil: dal 6,9% nel 2014 e 6,5% nel 2019.
Assicurarsi che le cose non funzionino Il funzionamento della sanità si basa innanzitutto sul capitale umano. Sulla competenza e sulla capacità di relazione (e quindi anche sul tempo a disposizione) degli operatori sanitari. Blocco del turn-over e pre-pensionamenti sono le misure scelte per mettere al tappeto il servizio sanitario pubblico. In Toscana nel biennio 2015-16 se ne andranno 2.260 operatori (e non saranno sostituiti), che sommati ai 2.500 dipendenti “persi” negli ultimi anni portano a un taglio del personale del servizio sanitario regionale vicino a un – 10% del totale. Aumenteranno le liste di attesa e soffrirà la qualità dei servizi, mentre, a causa del blocco delle assunzioni, crescerà l’esodo di giovani medici e infermieri verso l’estero. Del resto è lo stesso assessore alla sanità della Toscana, Stefania Saccardi, senza ombra di rammarico o scusa, ad ammetterlo. «Già oggi tanti si rivolgono a Misericordie e Pubbliche Assistenze per visite e esami (a pagamento NDR) visto che il pubblico espelle dal suo circuito un numero enorme di persone non garantendo la tempestività delle prestazioni».
Fare arrabbiare la gente Per provocare il distacco dei cittadini dal servizio sanitario pubblico bisogna anche infliggergli un danno economico, ovvero tenere molto alto il livello dei ticket, fino a raggiungere il prezzo pieno della prestazione. Negli ultimi anni il ticket ha cambiato la sua natura: da strumento di dissuasione nei confronti dei consumi impropri (soprattutto farmaceutici), con l’imposizione di pochi euro a ricetta, a vera e propria tassa sulla malattia: tanto più malata è una persona, tanto più paga. Una tassa esosa e iniqua che non dovrebbe esistere in un sistema universalistico già finanziato, quindi pre-pagato, dalla fiscalità generale.
Consegnare il servizio sanitario al capitale privato Il Project Financing, meglio conosciuto come Private Financing Initiative (PFI), degli ospedali fu introdotto nel Regno Unito negli anni del governo Thatcher ed è stato il precursore delle privatizzazioni avvenute in sanità negli anni seguenti. Una recente analisi della situazione dei 101 ospedali britannici costruiti col PFI mostra che tali contratti non sono vantaggiosi per il servizio sanitario nazionale e mettono in pericolo l’assistenza dei pazienti. Come minimo andrebbero rinegoziati. Da quel poco che si è potuto vedere in Italia, e anche in Toscana, il PFI si è dimostrato, come nel Regno Unito, un affare assai asimmetrico: molto favorevole per il concessionario privato e molto problematico per l’ospedale pubblico.
Ma in Italia la spinta verso la privatizzazione non passa attraverso complessi meccanismi finanziari. E non c’è bisogno di grandi esperti per inventare la ricetta giusta. Il banale mix di lunghi tempi di attesa e di ticket particolarmente costosi è in grado di produrre migrazioni di massa verso il settore privato, soprattutto se questo mette sul mercato prestazioni low cost. l “banale mix” che porta alla privatizzazione ha naturalmente costi sociali elevati, rappresentati dalle persone che rinunciano a prestazioni sanitarie o all’acquisto di farmaci a causa di motivi economici o carenze di strutture di offerta. “Lunghe liste di attesa nella sanità pubblica e costi proibitivi in quella privata. Per questo – rileva una ricerca del Censis – quasi una famiglia su due rinuncia alle cure. Nel 41,7% dei nuclei familiari, almeno una persona in un anno ha dovuto fare a meno di una prestazione sanitaria. I cittadini, inoltre, pagano di tasca propria oltre 500 euro procapite all’anno, mentre nell’ultimo anno al 32,6% degli italiani è capitato di pagare prestazioni sanitarie in nero”.