tempoSi era verso la metà dell’Ottocento e viene da immaginare che la scena avesse una concitata solennità. Dalle 11,30 alle 12,30 di ogni lunedì gli orologiai di Siena andavano a prendere l’ora esatta all’Accademia dei Fisiocritici. Nella grande aula, infatti, si trovava la meridiana a camera oscura. E sarebbe stato mezzogiorno preciso quando dal foro gnomonico posto sulla parete a sud il sole avesse raggiunto la retta tracciata sul pavimento, schiarito il marmo con su disegnati la linea del Tempo Medio a forma di otto, i mesi, i segni dello zodiaco. All’istante, con accigliata meticolosità, gli orologiai rimettevano le proprie lancette, mosse allora da meccaniche piuttosto approssimative. Ma non solo. Prima uno strillo, poi un rintocco sul tetto dell’Accademia, dava il segnale affinché le campane di torri e chiese avvisassero che era giunta l’ora mediana del giorno. Dunque, che orologi ed anime prendessero misura del tempo trascorso e di quanto loro ne restasse. Era così che quel raggio di sole appena insinuatosi in un pertugio di mondo dava a un’intera città la certezza d’essere dentro un tempo ‘vero’ e condiviso.

tempo2La meridiana (tutt’oggi visibile, ma resa attiva da un congegno elettronico che simula il movimento del sole) fu realizzata tra la fine del 1848 e l’inizio del 1849 da Giuseppe Pianigiani, l’ingegnere cui si deve anche la linea ferroviaria Siena-Empoli. Gli accademici vollero che fosse costruita a memoria del precedente heliometro fisiocritico ideato dal fondatore dell’Accademia Pirro Maria Gabbrielli nel 1704 e andato distrutto per il terremoto del 1798. All’epoca in cui riallineare gli orologi di una città era il massimo della globalizzazione. Perché ogni luogo aveva il suo orizzonte, il suo cielo, il suo sole di maggiore altezza. Dunque persino il tempo vantava una misura ‘locale’.

Nella odierna cosmopoli che stima il tempo tanto esatto sul presente quanto incerto sul futuro; in questo mondo simultaneo, dove – ancorché stanziali – una sorta di jet lag ci fa perennemente confusi, affetti da discronia, il problema non è più stabilire l’ora vera. Anzi, è come evitare l’esattezza di un tempo che scorre inesorabile. Come tenerlo a bada agitandosi, cercando di giungere sempre in ritardo su se stessi e sulla vita. Illudendoci, così, di essere noi a gestire il tempo, mentre di esso altro non siamo che semplici notai a siglare pratiche ed atti. Anche l’esigenza di volerlo calcolare, di immaginarlo ciclico, rassicurante nei suoi ritorni e ricorrenze sembra avere a che fare più con la consolazione che con l’utilità.

Certo, la questione non nasce con le nevrosi del terzo millennio. Figuriamoci. All’inizio fu la klepsýdra, il cui nome significa letteralmente “ruba-acqua”. Un contenitore di pietra a forma conica che attraverso un foro faceva passare acqua e dove una scalettatura di segni stava a indicare il trascorrere delle ore. Il rudimentale strumento rendeva bene l’idea che il tempo non “passa” ma fluisce. E già questa distinzione fa capire quanto fosse difficile definirlo in termini filosofici. Tant’è che anche Agostino d’Ippona rinunciò all’impresa, affermando di sapere bene cosa fosse il tempo, ma di essere assolutamente incapace di spiegarlo.

Forse, proprio per questa difficoltà a determinare ciò che racchiude in sé l’attimo e l’eternità, l’uomo si è inventato sistemi di misurabilità del tempo che diano l’illusione di dominarlo o, tanto meno, di organizzarlo. Da qui l’idea convenzionale della cronologia, quasi per rassicurarci, ogni qualvolta la nostra psiche possa trovarsi sull’angosciante precipizio del “nulla”, che noi esistiamo in questo presente, frutto di un passato e ragione di uno speranzoso futuro.

Ecco, persino il pappagallesco augurio che in questi giorni di fine d’anno torneremo a scambiarci («buona fine e miglior principio») rivela, nel profondo, il comprensibile tremore rispetto all’incognita del tempo che vorremmo non solo misurabile sui calendari, ma “commisurato” alle nostre esistenze. Ad ogni fine d’anno ci troviamo nei panni del leopardiano “passeggere” cui un venditore di almanacchi offre la sua merce: «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?». Il passante, però, vorrebbe altro da una mera sequela di giorni, chiede risposte certe sulla felicità dei domani. Niente da fare. Il venditore di almanacchi non può prendere impegni di tal fatta. Perciò il dialogo tra i due si incupisce nel ripensare al tempo trascorso, contrassegnato soprattutto da vicende dolorose. Finché alla modica spesa di 30 soldi (tanto costava l’almanacco più bello) il passeggere compra anche un po’ di speranza: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?».

Se tale è la rendita ricavabile da un modesto investimento di 30 soldi ci possiamo stare. Anche perché, in quella speranza, pare risiedere l’unica possibilità non certo di dominare il tempo, ma di esserne in qualche modo partecipi, sincroni al suo fluire. Così che almeno una scheggia dell’infinito tempo vada a coincidere con il “nostro” tempo.